Intervista a Pasquale D’Attoma, regista della compagnia Marienbad Teatro di Conversano
Una piacevole promenade nel girone dei creativi insieme a Pasquale D’Attoma che, nella sede di Marienbad, ci ha parlato del suo percorso formativo-creativo e ci ha raccontato come è nata la passione per il teatro e qual è il suo rapporto con gli attori, il pubblico e la città.
Come è nato l’amore per il teatro: i tuoi autori prediletti e le tue letture di ispirazione.
Tutto è cominciato con una poesia di Montale che ho letto tra la I e la II media, Meriggiare pallido e assorto, sebbene io abbia cominciato a scrivere molto prima (la mia prima poesia l’ho scritta a 5 anni). La scrittura, tuttavia, non è stata la mia unica forma di espressione artistica. Amavo molto anche il disegno e volevo fare il pittore. In IV liceo scientifico, mentre lavoravamo su Aspettando Godot, un mio compagno notò alcuni miei disegni ispirati all’opera di Beckett e li mostrò, a mia insaputa, alla professoressa che decise di portarmi all’università di Lingue e organizzare una mostra, poi portata anche a Bologna. Allora avevo 17 anni e meditavo il suicidio. Alcuni messaggi dei miei disegni arrivavano naturalmente dal testo, tipo “cosa devo fare adesso?” “dì sono felice!”, “non lo sono”, “ma tu dillo lo stesso”. Era un testo teatrale, e l’impatto con il teatro fu forte. L’incontro vero con il teatro, però, avvenne per caso all’università, quando, partecipando ad una mostra di pittura a Conversano, fui preso da un pittore che stava organizzando una manifestazione dove si faceva anche teatro. Lì ho conosciuto Marcello Prayer, era il 1991, e decisi che mi sarei laureato e avrei recitato. Con Cassano ho fatto una tesi sui metodi teatrali utilizzati in politica, e mi sono laureato in scienze politiche. Non ho più continuato quegli studi ma li ho riportati negli spettacoli, applicando la sociologia della conoscenza al mio lavoro. Sempre in quegli anni c’è stato l’incontro con Albertazzi, che ho odiato sin dal primo momento, durante l’officina su Lucrezia Borgia, e lì ho capito che avrei voluto fare il regista più che l’attore.
Teatro classico e sperimentazione: c’è fusione o persegui l’innovazione?
Dalla storia con Albertazzi sono approdato alla Casa dei doganieri dove ho avuto modo di fare spettacolo con Riccardo Caporossi, il quale mi ha confermato sempre di più la voglia di fare teatro contemporaneo. Ho fatto due spettacoli con lui, e per me è stato un grande maestro. Il suo era un teatro sperimentale a firma anni Settanta, ma io cercavo qualcosa di nuovo. Dopo tanti anni il nuovo è arrivato con Iuri Ferrini, il mio ultimo maestro, con il quale ho fatto dei master di specializzazione e uno spettacolo che ha partecipato al festival dannunziano a Pescara, dove ho lavorato come attore e attrezzista, realizzando gli oggetti d’arte dello spettacolo. Sperimentare è ciò che preferisco, ma c’è un problema di fonti. Il teatro contemporaneo non ha finestre ufficiali cui attingere, occorre andare a casaccio e si fatica a trovare dei testi nuovi. Noi scriviamo, ma autori contemporanei non se ne trovano. C’è morte nel teatro, è tutto un richiamo al teatro classico, e io invece cerco strade non ancora battute. Perciò non è più un punto di riferimento Beckett, non è più un punto di riferimento Chekov – ho adorato smisuratamente Il gabbiano – e neanche Shakespeare (ho citato le tre opere per me più importanti). Sogno di una notte di mezza estate, ad esempio: con tutti i riferimenti esoterici e cabalistici che contiene, metterlo in scena per renderlo attuale è un’operazione come tutte le altre, e mi annoia.
Relazione testo-attore: è l’attore-individuo ad ispirare il personaggio o si lavora sull’adattamento di un testo?
Per molto tempo abbiamo adattato gli spettacoli agli attori che c’erano. Ma non è sufficiente, perché il metodo che utilizziamo, ossia quello del de-pensare, quello della verità scenica, annulla questo processo, quindi l’ultima fase a cui siamo arrivati è quella del regalo. Lo spettacolo su cui stiamo lavorando – Tourister, fondato sul respiro come pulsione vitale – lo considero un regalo che ci stiamo facendo, uno spettacolo in cui ci sono le essenze degli attori, ma non le loro storie. La storia dell’attore non interessa a nessuno, interessa la sua verità, e la verità è la mia personale liberazione energetica. C’è con gli attori un rapporto molto personale, e non perché loro mi raccontino le loro storie (cosa che può accadere, se vogliono farlo) ma perché spesso le cose emergono, ed è qualcosa che ho imparato a riconoscere lavorando con la bioenergetica. Ho fatto per quattro anni l’arredatore di interni, ed ho lavorato su di me per sentire l’energia dei luoghi e delle persone, imparando a diventarne consapevole. In teatro si crea un’intimità particolare e forte senza, molto spesso, sapere nulla degli altri. Il nostro lavoro è per metà basato sull’energia che circola tra di noi e per metà sugli esercizi che ci permettono di avvicinarci. In questo senso è un regalo che ci facciamo, uno scambio di energia.
Niky e Pasquale, noto rapporto di osmosi professionale. Cosa vi unisce e cosa vi vede, invece, su posizioni divergenti?
Quando ho cominciato a fare teatro Niky aveva otto anni e il primo spettacolo che ha visto era Dalle terrazze del tempo, spettacolo itinerante nel centro storico di Conversano. Già da piccolo, quindi, ha iniziato ad amare la letteratura e la poesia, ma al teatro è arrivato dopo. Niky, principalmente, scrive. È stato pubblicato con Bauman in Francia, in una rivista sociologica, in Egitto, in Italia con una sua opera, è stato scelto e selezionato alla biennale dei giovani artisti a Skopje – un’esperienza molto forte. Amiamo autori diversi, ma a livello di metodo ciò che ci differenzia è la musica. Mentre io, per creare la regia, ho bisogno di ascoltare prima la musica e poi su quella musica costruisco la scena, mio fratello Niky, per creare una musica, ha bisogno di vedere prima una scena. Su questo ci sono confronti accesi, ma è semplicemente un metodo diverso. Camminiamo insieme ma non viviamo insieme. Siamo molto autonomi e critici l’uno nei confronti dell’altro e anche molto verso noi stessi.
Rapporto con il pubblico in scena. Quarta parete abbattuta: quali sono le reazioni del pubblico?
Il pubblico ha paura. Ha perso il senso del contatto. Quando faccio laboratorio con i bambini propongo un esercizio di massaggi, solletico e baci, ma i bambini non riescono più a farlo, hanno difficoltà enormi, che sono le stesse dei genitori e degli adulti. Quando sei adulto riesci a mascherarle di più, hai la scusa che stai lavorando con un uomo, e altre sciocchezze simili. La verità è che non c’è più contatto. Il teatro mi piace più del cinema, con cui ho avuto poco a che fare, perché ha il contatto e perché, a differenza di altri metodi, il metodo detto triangolare (quello di stare in ascolto del pubblico) è quello che ti permette di avere un senso come attore e come regista. Gli spettacoli possono essere più o meno meravigliosi, ma se non sono in grado di essere generoso nulla ha senso, perciò cerco di insegnare a essere generosi. Quella intimità di cui parlavamo prima si traduce nella consapevolezza che sono sulla scena per donare e non per prendermi l’applauso. Come dice Peter Brook, certe volte l’applauso arriva per noia.
Rapporto con il pubblico fuori dalla scena. Consensi e dissensi: quali sono le reazioni del regista?
Con la mia prima compagnia nel 1995, “I fiori blu” in onore a Queneau, facevamo puro teatro sperimentale e di ricerca, e allora ci selezionarono per una rassegna. Ero convinto di essere arrestato per il testo che avevo scritto e messo in scena. Non fu cosi, perché nessuno ci capì. Nessuno capì nulla, anzi ci facevano gli applausi, ma io avrei preferito le urla, perche ciò che dicevamo era molto forte. La situazione in questi anni è cambiata, perché non dico che cerco di fare spettacoli che siano comprensibili, ma l’idea è di arrivare all’essenza delle cose, e l’essenza delle cose accomuna tutti. Naturalmente ci può essere un nostro modo sbagliato di fare le cose quando la gente dissente, o ci può essere una paura da parte della gente. Lo spettacolo Yes we porn, in questo senso, è stato il massimo. Molta gente ci ha tolto il saluto e l’amicizia su Facebook, e ci ha criticati senza averlo neppure visto, dicendo che era porno e non si doveva fare. Sono stato male, soprattutto per un commento di una persona amica che ha visto “nella mia ricerca di identità in un teatro che ricerca proprio l’identità” un elemento di allontanamento. Critiche di questo tipo feriscono se fatte da persone che sanno che vivo e lavoro per il teatro e che faccio questo lavoro di ricerca per comprendermi e, anche, per dominarmi. A questo proposito, ti leggo una battuta che probabilmente finirà nello spettacolo Tourister: “Il nostro vero avversario siamo noi stessi, siamo la nostra frontiera, ci sono io là fuori, io da incontrare, da combattere, io che devo costringermi a venire a patti con me stesso, l’altro non è il nemico, è quello che balla con me, la mia occasione, ed io sono la sua occasione, devo sorprendermi in tutto, devo sconfiggermi, è tragico, caotico e delizioso insieme”. Questo è il mio modo di vivermi e di vivere il teatro. Le critiche distruttive ti fanno star male perché ti mettono in discussione sempre, e va bene così, altrimenti hai anche tu dei preconcetti. Riguardo alle critiche positive, invece, mi rendo conto che stiamo diventando una realtà, anche se non so bene come ci vivono da fuori. Mi capita spesso di sentire dei commenti, di essere fermato, ma valicare questa porta sembra essere un problema, come se qui dentro accadesse chissà che cosa. È una cosa che non gestisco, ma non nascondo che mi fa piacere che si stia capendo che noi respiriamo ed esistiamo.
Marienbad è il vostro spazio fisico e creativo. Sentite la necessità di spazi diversi?
Siamo qui da cinque anni. Prima abbiamo vagato. Sì, ci sarebbe indispensabile uno spazio più grande, ma senza finanziamenti esterni, perché scegliamo di essere indipendenti e autonomi a livello mentale. Abbiamo bisogno di più spazio e anche di una foresteria, perché abbiamo allievi di paesi limitrofi e ospitiamo spesso dei maestri che vengono da fuori. Inoltre, abbiamo un pubblico in espansione, che è venuto da Bari, da Roma, da Milano, e non so neppure come è successo.
Strumenti di diffusione della cultura indipendente e autofinanziamento: come risponde l’amministrazione?
Promuoviamo i nostri spettacoli via Facebook, che è un forte strumento di diffusione. In termini di autofinanziamento, un’idea vincente è quella di fare gli spettacoli in associazione, nel luogo in cui produciamo le cose, perché i costi sono alti e si è lavorato per anni per pagare service e teatri, in quanto non ci sono facilitazioni in questo senso, se non le giornate concordate tra il comune e i vari teatri. In quegli spazi condivisi, però, sei sempre in gara con gli altri, e soprattutto, se fai molta attenzione all’energia non puoi andare in spazi dove si fa di tutto. La chiesa di San Giuseppe ne è un chiaro esempio. Lì si fa una serie di manifestazioni diverse, e posso affermare che energeticamente è un posto bruttissimo. Nel Seicento si facevano i processi alle streghe, ci sono proprio le lapidi, e avendo lavorato per un anno e mezzo ad un esperimento di teatralità museale su cui sono state scritte anche due tesi, ti posso dire dell’energia negativa che arriva di là. Oltretutto, uno spazio dove si fa di tutto è uno spazio che non significa niente. Allora sarebbe bello se il comune assegnasse degli spazi in base ad una valutazione fatta dall’albo delle libere associazioni. Io per primo dico che se la nostra associazione non ha valore, non merita uno spazio. Le relazioni con l’amministrazione esistono e sono diventate sempre più positive, sebbene non siamo un’associazione politica, ma è come se producessimo politica. Però, non può andare bene che il comune ti dia uno spazio da condividere con altre persone. Se quello che fai è di qualità e valore, allora quel valore deve essere protetto, ecco perché l’albo – in base a dei criteri stabiliti da un tecnico super partes – deve stabilire i valori e, in base a quelli, assegnare uno spazio solo a quella compagnia, come succede in altri paesi virtuosi. Per esempio, spazi dove non si paga l’affitto, ma solo le utenze. Ci sono spazi abbandonati dai quali il comune non può che perdere, come le stanze di San Benedetto, abbandonate a se stesse. Se quegli spazi fossero chiusi e assegnati alle associazioni, noi le terremmo in vita, ma con delle zone nostre che ci diano la possibilità di fare un lavoro continuativo.
Come risponde Conversano alla cultura indipendente?
Bene, ed è sorprendente, perché mi hanno sempre detto che faccio teatro di nicchia, la qual cosa mi ha sempre offeso. Invece, sembra che, grazie alla nostra energia e al nostro lavoro, stiamo riuscendo ad arrivare alle persone. Come dice qualcuno, una scorciatoia mi impedisce di conoscere tutto il resto che io avrei conosciuto. Beh, io vorrei stare in quella zona là. Non cerco delle scorciatoie, io cerco la verità. Quindi se ci definiscono teatro di nicchia mi dispiace per loro ma non lo siamo. È ovvio che non abbiamo l’opportunità, almeno per ora, di andare in tanti teatri e farci conoscere, però il successo di Yes we porn a Casa delle Arti, con duecento persone che sono venute a vederci dopo le venti repliche precedenti, dimostra che non facciamo teatro di nicchia, e dimostra che la gente ha fame. È affascinate l’eterogeneità della gente che si avvicina, gente che pensava avessimo la puzza sotto il naso sta scoprendo che siamo aperti e disponibili. Ovviamente, se noi non andiamo bene alle persone e le persone non vanno bene a noi, io non ho difficoltà a dire OK fuori. Prima di tutto, rispetto e onestà reciproca. Succede anche con gli allievi, come non tutti gli allievi sono giusti per un maestro, non tutti i maestri sono giusti per un allievo. In questo sono diventato intollerante, non siamo tutti fratelli, è il caso di guardarsi in faccia e se non mi riconosco in te non posso tollerarti. Se sei razzista, sessista, omofobo, bigotto non puoi entrare qui. Chi non si riconosce in queste categorie è libero di varcare la soglia, le nostre porte sono sempre aperte, non esiste un filtro e non nascondiamo i nostri progetti. Abbiamo smesso di fare locandine, perché ci sono costi assurdi negli spazi pubblici, ma mi piacerebbe che i curiosi si affacciassero di più. Purtroppo, non tutti hanno il coraggio. Io, invece, mi nutro della gente che incontro e vorrei nutrire la gente. Beckett diceva: “noi non facciamo spettacoli per nutrire le masse, ma facciamo spettacoli che ci piacerebbe fossero capiti almeno da una persona”. Quell’unica persona, però, sono tutti. Il nostro teatro è fatto per tutti. Ecco perché mi dà fastidio che ci considerino “di nicchia”. Abbiamo affrontato molti temi, tra cui la pedofilia, il figlicidio, il disagio sociale, l’amore, e ora le pulsioni vitali. Sono temi molto più comuni di quello che si possa pensare. Ecco la paura: c’è paura a riconoscersi. La paura che siamo come tutti quanti gli altri, e non abbiamo niente di diverso.