Fonte Fantasia: “Il teatro è una verità da cui non si può prescindere”

Intervista alla conversanese Fonte Maria Fantasia, giovane attrice teatrale attualmente impegnata insieme a Stefano Accorsi in una lunga tournée italiana che porta in scena il Decamerone, per la regia di Marco Baliani, che farà tappa al Teatro Petruzzelli nei giorni 7 e 8 aprile

Conversano – Un condensato di energia, potenza vocale, espressività. Tutto in un corpo minuto e flessuoso su cui spiccano lunghi capelli ricci e grandi occhi azzurri. Questa (e non solo) è Fonte Fantasia, laureanda in Lettere moderne e attrice di teatro, che ci ha raccontato, con mimica e linguaggio appassionati e appassionanti, del suo approccio al teatro e di come questo sia poi diventato la sua condizione di vita. Una piacevole chiacchierata a ruota libera che ci ha portato, tra regressioni, digressioni e riflessioni, a ricostruire un percorso intenso e ricco di esperienze professionali diversificate e trasversali, tutte, però, annodate da uno unico e robusto spago, ossia la ricerca della qualità e della verità, intesa come riconoscimento e coscienza di se stessi, elementi essenziali ed imprescindibili per fare questo mestiere (di vita) al meglio.

Quando e come ti sei avvicinata al teatro?
“Ho iniziato intorno ai 16 anni con vari laboratori e ho continuato per anni facendone moltissimi con docenti italiani e stranieri. Il primo l’ho fatto con la Compagnia delle Vigne di Antonio Minelli a Conversano. Ho poi partecipato a diversi cortei storici, ma senza aver mai studiato teatro. Avevo  voglia di fare cose diverse, ho fatto danza contemporanea per sei anni a Conversano con Mirella D’alessandro, tango, danze caraibiche, canto, tutte esperienze che rispondevano ad un tentativo di evasione che è cresciuto nel tempo. Quando poi questa cosa comincia a starti addosso, ti chiama lei, non puoi farne a meno, non è più una scelta e la devi assecondare. Ho iniziato l’Accademia dei Filodrammatici a Milano a 24 anni, dove il lavoro più intenso è stato quello sul corpo, con Franco Reffo e Barbara Geiger, ma le mie esperienze e i miei incontri sono precedenti, come quello folgorante con Stefano di Lauro, brillante regista locale, persona eclettica, e soprattutto scrittore straordinario. Posso senz’altro dire che mi sono appassionata al teatro facendolo, non vedendolo”.

Chi sono i tuoi maestri e modelli e quali le letture di ispirazione?
“Ho avuto molti incontri importanti, ma tra questi spiccano il succitato Stefano di Lauro con il quale ho fatto diversi lavori, Roberto Corradino, attore e regista locale straordinario capace di tirar fuori la tua verità senza alcun tipo di finzione, e Peter Clough, direttore della Guildhall a Londra. Se devo citare un modello di ispirazione, è Carmelo Bene che considero un genio, sebbene la sua riflessione sul linguaggio e sul teatro spesso non sia stata capita. Riguardo alle letture, invece, amo molto i testi di filosofia, ma un romanzo che ho adorato e sognato di mettere in scena sin da bambina è Zezé e l’albero d’arance di Vasconcelos. La lettura dei testi teatrali dopo un po’ mi annoia, ma due opere che considero il top sono Caligola di Camus, una riflessione tagliente sul linguaggio, sul peso delle parole, sull’assunzione di responsabilità che è il rapporto tra verità e linguaggio, dove la parola prende peso, non è parola, ma è corpo, è un’arma, e Cyrano de Bergerac di Rostand, che non è teatro, ma pura poesia”.

Le tue esperienze si muovono tra teatro classico e sperimentale. Come vivi questo rapporto?
“Al momento facendo l’attrice-dipendente cerco di fare al meglio quello che mi viene richiesto, sempre rispondendo alla mia natura di perfezionista. La mia fisicità mi porta ad essere molto adatta al grottesco, per una questione di potenza e costituzione fisica, ma la mia rapidità e sveltezza si adattano perfettamente anche alla Commedia dell’Arte, duttilità adatte anche al realismo psicologico inteso come modalità di indagine del percorso di vita di un personaggio, studiato con Bruno Fornasari e Karina Arutunyan, perciò cerco di assecondare un po’ tutte le richieste. Se fatto bene, il teatro mi interessa sia che si tratti di tragedia o teatro sperimentale. Del resto, è solo una questione di stile. Quello che io cerco è la qualità di chi lo fa, perché anche lo sperimentale può essere fintamente sperimentale, e a volte gli manca la realtà. Secondo me il teatro classico può essere assolutamente sperimentale, è una ricerca mentre sei in scena, una verità durante. Come diceva Carlo Cecchi: “Se faccio Shakespeare oggi, è contemporaneo perche lo faccio oggi”. È chiaro che c’è una drammaturgia contemporanea legata ad una situazione storica sociale specifica, ma se prendi opere della tragedia greca o lo stesso Shakespeare ti rendi conto che sono opere che riflettono sulla condizione umana, su temi universali che non hanno tempo, su qualcosa che sta dietro e vale sempre. La forma è ovviamente una scelta del regista, di quello che si è. E Roberto Corradino in questo è un esempio di rivisitazione e rivoluzione che passa attraverso quello che lui è. Ricerca e verità da cui non si può prescindere. Io non sono per il recupero fedele dei testi, ma per il recupero del testo come tematica universale, perché la novità sta nell’angolazione da cui guardi”.

“Verità in scena” significa portare in scena se stessi senza finzione. Come si lavora sull’interpretazione di ruoli completamente diversi tra loro?
“Intanto, secondo me si può fare l’attore ed essere comunque attori anche quando non sei in scena, perché lavori anche osservando tante altre atre cose. Conosco attori che hanno spirito di osservazione pari a zero, e quindi non hanno consapevolezza della relazione sulla scena, cosa che raggiungi esercitandoti in tutta un’altra serie di situazioni. La verità implica la qualità dell’attenzione, dello stare. Non c’è separazione tra quello che sei in scena e quello che sei tu, in scena giochi a vestire un ruolo, però sei tu. Vai ad attivare degli stati interiori di cui devi avere consapevolezza per giocarci. La capacità di interpretare ruoli diversi nasce proprio da questa consapevolezza. Verità personale è coscienza di corpo e voce, per cui ti devi allontanare da te. Se non parti da una coscienza chiara non puoi fare qualcosa di diverso. Partire vuol dire allontanarsi da un punto, ma devi sapere da dove stai partendo. Se ne hai coscienza puoi metterti addosso un altro vestito. Se invece ripeti sempre la stessa modalità, c’è superficialità nell’osservazione delle cose”.

Il rapporto tra il pubblico e l’attore: esiste una reale interazione?
“Ho fatto sia spettacoli in cui si rispettava il vincolo della quarta parete sia spettacoli in cui si è interagito col pubblico, ma ovviamente non è detto che scendere in platea significa coinvolgere il pubblico. È difficile entrare in una connessione vera col pubblico, perché oggi, un po’ per buona educazione – nel senso negativo – un po’ per conformismo, non è semplice abbattere i muri, soprattutto lì dove c’è un tentativo di provocazione. Penso che se il pubblico applaude vuol dire che non è stato provocato abbastanza. Quando Carmelo Bene andava in scena, la provocazione era talmente alta che il pubblico usciva davvero. Se la provocazione resta a metà il pubblico non la coglie. Ho la sensazione che si siano confusi i piani, tra la funzione del teatro e quella della televisione. La gente oggi va a teatro per vedere in carne la tv. Non a caso il teatro lo fanno i grandi nomi, senza contare la mancanza di qualità di quelli che si improvvisano attori teatrali”.

Provocare il pubblico, quindi, è un rischio che l’attore deve correre per farsi sentire?
“Sì, l’attore deve rischiare. Il teatro deve trasfigurare. Se parli in modo diretto  la storia diventa contingente ad una situazione, da qui l’importanza di testi universali che abbiano spessore, perché parlando di una storia si parla di altre mille. Quindi, il ruolo, il personaggio, le caratteristiche non devono essere un’arma per difendersi da parte dell’attore, devono essere un mezzo per andare ancora più dentro, semplicemente facendolo con uno specchio preciso. È come se avessi una lente di ingrandimento che ti facesse andare ancora più a fondo. La lente è uno strumento ma ti fa vedere in maniera allargata, quindi tu vedi attraverso un vetro, ma vedi di più. Questo deve fare il teatro secondo me: far guardare attraverso una lente, intesa come filtro che amplifica uno stato. L’attore che non si compromette sta facendo spettacolo, quello che si compromette sta facendo teatro. Quindi, se un attore vuole raggiungere il pubblico deve compromettersi, provocare, arrivare a fondo. È un gioco a due, ma deve cambiare anche il respiro del pubblico. Il pubblico guarda attraverso lo specchio, ci vede quello che vuole e non sai come reagirà. L’attore è ovviamente il primo ad assumersene la responsabilità, insieme a tutti coloro con cui fa lo spettacolo, per cui deve esserci un’assunzione di responsabilità collettiva, e allora arriva una forza. Gli spettacoli finora secondo me più taglienti sono, infatti, proprio quelli di gente che “vive” insieme da vent’anni, che condivide un pensiero, che non fa spettacolo, ma va al di là, e qui non posso non citare Antonio Rezza e Flavia Mastrella, secondo me inscindibili. In quegli spettacoli il pubblico può cogliere o meno la provocazione, in ogni caso ha una reazione, che sia di stizza o di risata isterica, ma la reazione c’è.  Ad un certo punto, però, la responsabilità dell’attore e del teatro finisce, perché il cambiamento è sempre personale, non si instilla, quindi sta al pubblico percepire e cogliere”.

Hai recitato anche all’estero o solo in Italia?
“Solo in Italia finora, ma ho partecipato ad un concorso e ho vinto il primo premio, Premio Franco Molè 2014 per giovani attori – che aveva tra i giurati Rita Forzano con cui ho uno splendido rapporto di stima – che consiste in una borsa di studio alla MaMa a New York, un teatro di ricerca sperimentale, che prevede due settimane di lavoro e approfondimento”.

Hai esperienze cinematografiche?
“Ho fatto soltanto una figurazione nel film Noi siamo Francesco di Guendalina Zampagni, girato anche a Conversano, ma non ancora arrivato nelle sale italiane. In quel film ero in lizza per un altro ruolo, ma anche se il provino è andato molto bene, la scelta è stata dirottata su un’altra ragazza forse per diversi motivi. C’è un tempo per ogni cosa, probabilmente non ero la persona più adatta”.

Qual è il tuo rapporto con Conversano e cosa pensi della realtà teatrale locale?
“Il rapporto con Conversano è lo stesso che ho con altre città. Non sento di appartenere a nessun posto, sono sempre stata una persona solitaria, casa e studio, ma questo non è un ripiego, semplicemente non ho mai apprezzato la chiacchiera, la situazione di gruppo, il cliché del sabato sera, perché sono situazioni provinciali che appartengono a Conversano come a Milano o altre città, ed io non amo il provincialismo perché trovo che sia prendere su di sé degli ideali falsi, quindi preferisco allontanarmene. Non è importante che si riconosca di dove sono, perché quello che uno fa non deve avere storia, non deve avere tempo. Il regionalismo diventa una specie di patriottismo, un atteggiamento provinciale molto italiano, che è nella mente, non nel luogo.
La realtà teatrale locale non è certo semplice, ci sono gruppi e registi teatrali validi, e citerei Michele Santeramo, Michele Sinisi, Fibre parallele, che stanno qui come starebbero altrove, ma la crisi è un po’ ovunque. Il fermento c’è qui come al Nord, le compagnie ci sono, ma mancano i soldi, occorre fare molti sacrifici tra laboratori e altro per poter fare i giusti incontri. Nemmeno Milano offre molto, ci sono teatri ma ospitano prodotti di tutta Italia, non fanno necessariamente produzione e dietro ci sono senza dubbio dinamiche politiche che a noi sfuggono”.

Qual è la tua aspirazione?
“Al momento sono in una posizione in cui non sono compromessa totalmente, faccio al meglio il mio compito, lavorando e divertendomi, ma sono esonerata da ogni altra responsabilità. Quello che spero di  fare un giorno è poter essere io creatrice, autrice e scrittrice di un lavoro che sia totalmente mio, di cui assumermi la responsabilità totale. La creazione è sempre il frutto di un lungo lavoro che comporta nutrimento ed esercizio fisico, vocale, mentale. Lavori per vie traverse, fai tante cose diverse, teatro, danza, canto, studio, altri lavoretti per mantenerti, e questo ti offre moltissime possibilità di osservazione. Poi quando arriva un incontro diverso lo senti. La creazione, come accade con un bambino, è sempre frutto di un incontro tra due persone”.

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