Tarde parole a voi non credo, io credo al silenzio, festa della comprensione. (Milan Kundera, Lo scherzo)

I tempi moderni sono caratterizzati da una polluzione di parole. Parlate, scritte, cantate, urlate. Non sempre a proposito. Favorite dalla proliferazione dei mezzi di comunicazione e dai social. Ho usato non a caso il termine “polluzione” perché si tratta di un inquinamento verbale ogn’or crescente, che sta mettendo in sordina il suo prezioso contraltare: il silenzio.

È vero che c’è silenzio e silenzio, tant’è che il cardinale Carlo Maria Martini disse che bisogna distinguere il silenzio, figlio della riflessione, dal mutismo, che è sinonimo di morte.

Ma la frase di Kundera allude al silenzio come momento, addirittura festoso, di comprensione. Come landa sconfinata in cui il pensiero, velocissimo, può andare liberamente per scoprire nuovi territori. Le parole, tarde e lente, vengono dopo. Molto dopo.

Il compositore John Cage ha composto nel 1952 un’opera, chiamata 4’33”, il cui spartito dà disposizioni all’esecutore di NON suonare per 4 minuti e 33 secondi, lasciando che sia il silenzio e l’ambiente in cui ci si trova a dominare la scena acustica.

Un altro compositore, Leopold Stokowski, disse che mentre pittori dipingono sulla tela i musicisti dipingono i loro quadri sul silenzio.

Infine, non essendoci il due senza il tre, il jazzista Miles Davis disse che “Tutte le note non fanno che incorniciare il silenzio”.

Per fare anche un’incursione poetica, non si può non menzionare Giacomo Leopardi, che dal colle dell’infinito era solito mirare “sovrumani silenzi”.

Il silenzio, dunque, ha bisogno di riprendere i suoi spazi imprescindibili. Perché, teniamolo bene a mente, è sempre il silenzio ad avere l’ultima parola.

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