Il labirinto ha sempre intrigato e spaventato l’uomo, sin dagli albori delle civiltà. Una delle storie più famose della mitologia greca ruota attorno al labirinto di Cnosso, che venne costruito da Dedalo (il cui nome è oggi sinonimo di labirinto) sull’isola di Creta per volere di Minosse. Ivi era rinchiuso il terribile Minotauro che fu ucciso da Teseo, il quale riuscì alfine a trovare la via di uscita grazie al filo di Arianna.
I labirinti hanno occupato un posto stabile nel corso dei secoli, nella pittura, negli antichi codici come nei tanti libri, nei giardini di tanti palazzi storici e infine nei luoghi più disparati.
Sono infatti una fortissima metafora di smarrimento, di spaesamento, stato in cui l’uomo si viene a trovare più volte nel corso della sua esistenza, cercando disperatamente di trovare la via di uscita.
Oggi, con i notevoli cambiamenti degli ultimi decenni, con l’avvento della società liquida, della Rete e con la globalizzazione, credo che questo senso di smarrimento stia arrivando a livelli mai raggiunti in passato.
In questo senso la frase di Chesterton assume una valenza molto forte.
Eppure esistono anche labirinti benefici, nella cui immensità è dolce il naufragare: le biblioteche.
“La biblioteca è un labirinto: potreste entrare e non ritrovare più l’uscita”.
Questo viene detto nella fiction tratta dal capolavoro di Umberto Eco, “Il nome della rosa”, per descrivere la biblioteca dell’abbazia benedettina ove si svolge la storia.
Perdersi nel dedalo della conoscenza, dunque, per ritrovare se stessi. Ne sapeva qualcosa J.L. Borges, che in un suo famoso racconto, “La biblioteca di Babele”, immagina una biblioteca fatta da infinite stanze esagonali. In tale labirinto senza fine esistono tutti i libri che possono essere scritti, compresi quelli senza alcun significato. Fa rabbrividire la frase seguente, tratta da questo racconto:
“… deve esistere un libro che sia la chiave e il compendio perfetto di tutti gli altri: un bibliotecario l’ha letto, ed è simile a un dio.”