Chi ha la mia età vedeva nei suoi primi anni di vita le persone andare ancora in campagna con la zappa sulla spalla. E questi poveri contadini erano spesso curvati per i tanti decenni passati piegati in due sulla terra. Unico atavico aiuto, quello del mulo, usato per trasportare, per arare e che tanta acqua ha portato su girando attorno alle norie.
In pochi decenni il lavoro manuale si è fortunatamente andato riducendo sempre più. E i carretti sono stati via via sostituiti dai treruote, gli aratri dai trattori e le zappe dalle motozappe.
È infine cresciuto tanto il terziario avanzato. Oggi, se si parla di smart working è perché tanta gente ha la possibilità di lavorare esclusivamente utilizzando il computer e Internet, operazione che evidentemente può essere svolta anche da casa.
Ciò si sta rivelando molto utile in taluni casi – vedasi la pandemia – ma ovviamente deve essere ben calibrata in condizioni normali, per evitare che la mancata compresenza umana generi spiacevoli effetti (o affetti) collaterali.
Esiste però un lavoro, o se volete un’attività, che si svolge nella sua fase creativa, sin dalla notte dei tempi in quello spazio indefinito eppur sconfinato che è la nostra mente. Sto parlando della scrittura.
La frase impertinente del grande scrittore Joseph Conrad mette in evidenza, sotto forma di paradosso, che i racconti, i romanzi, le poesie, le opere drammaturgiche, sono state concepite dalla mente. Magari guardando un tramonto, sentendo il rumore del mare o il ticchettio della pioggia.
Se ci pensiamo bene è in quel luogo vulcanico, che risiede dentro la nostra scatola cranica, che dal magma incandescente delle idee e dei pensieri viene fuori la creazione dell’uomo, quella che ci avvicina al divino.
E dobbiamo essere fieri di questo ed evitare di rammaricarci troppo, se siamo insegnanti o genitori, allorquando un alunno o un figlio sta indugiando un attimo di troppo, con lo sguardo fuori dalla finestra.