Il paese vuol dire non sentirsi soli. (Cesare Pavese)

Sono rimasto molto turbato, qualche giorno fa, nell’apprendere la notizia di quel signore anziano di 91 anni, ospite di una casa di riposo in provincia di Rovigo, che ha tentato di calarsi nottetempo dal primo piano, utilizzando delle lenzuola. Voleva fuggire, evadere da quella che considerava una prigione. Lo hanno trovato senza vita il mattino dopo, ancora appeso a quello strumento di fuga. Il fisico non gli avrà retto, ma è riuscito comunque a non mollare la stretta. Per lui quella corda-lenzuolo doveva essere il viatico per la libertà. È stato invece il sudario del suo ultimo addio. Una cosa davvero struggente.

La riflessione che ne segue è che l’attuale società ha nella gestione (parola bruttissima) della terza età il suo tallone di Achille. L’organizzazione sociale è tutta rivolta alle persone attive, al lavoro che fagocita tutte le energie, nonché rivolta altresì alle energie da utilizzare nel dopo lavoro. Quando esci dalla vita attiva, ecco che puoi diventare un problema.

Il paese, così come lo evoca Pavese, era invece una comunità inclusiva, nella quale nessuno si sentiva solo. Oggi non è più così o quantomeno non lo è più come una volta. E l’anziano in molti casi finisce con il sentirsi inutile, solo e abbandonato.

E terminare la vita in solitudine credo sia il peggiore dei finali di partita.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *