Nel docufilm “Ennio”, tuttora in circolazione, il grande compositore da poco scomparso ha affermato quanto sopra mettendo in evidenza la capacità del gioco degli scacchi di convogliare la nostra aggressività in modo pacifico.
Il mio pensiero va alle prime Olimpiadi, quelle che si tenevano nell’antica Grecia, per la disputa delle quali venivano finanche sospese le guerre. Allora i momenti di scontro avvenivano a livello agonistico, con lealtà, e, comunque, ci si sentiva per un po’ tutti appartenenti alla stessa razza umana. Tornando agli scacchi, il motto della federazione internazionale di questo gioco è non a caso “Gens una sumus” (“Siamo un solo popolo”), a sottolineare che tutti i giocatori del mondo dovrebbero fraternizzare e competere senza discriminazioni.
Oggi le cose non stanno così, e alle Olimpiadi i contrasti e le guerre non solo non si fermano, ma diventano anche terreno di scontro politico che provoca boicottaggi che finiscono con l’acuire l’odio tra i popoli.
Sarebbe bello se il mondo diventasse non solo un villaggio globale ma un villaggio olimpico universale, riprendendo le originarie intenzioni greco-antiche.
Tornando agli scacchi non posso non citare, come sintesi finale, questo passaggio tratto da “Cent’anni di solitudine” di Gabriel Garcia Márquez:
“Anche nei periodi più accaniti della guerra, i due comandanti concertarono tregue per scambiarsi i prigionieri. Erano pause con una certa atmosfera festiva che il generale Moncada sfruttava per insegnare il gioco degli scacchi al colonnello Aureliano Buendìa. Divennero grandi amici.”