Nel “long form” di Candida De Toma e Magda Ramunni la figura di Artemisia Gentileschi
Candida De Toma e Magda Ramunni (autrici di questo “long form”) delineano la figura di Artemisia Gentileschi, pittrice talentuosa e donna “in un mondo fatto di uomini, padri fratelli mariti amanti”. Chi era Artemisia Gentileschi? Qual è stata la sua vita di donna e artista? Quale il rapporto con gli Acquaviva d’Aragona? Quali con Finoglio? Quali le opere più significative? Nel long form di Candida De Toma e Magda Ramunni, scritto per Oggiconversano.it, alcune delle risposte su un’artista che ha segnato la nostra storia e ha dato un contributo fondamentale alla cultura, alla “nostra” cultura.
Il mondo di Artemisia Gentileschi è fatto di uomini. Padri, fratelli, pittori, mariti, amanti. Tutti uomini. Fin dalla più tenera età, lei, Artemisia, si è confrontata con un mondo declinato tutto al maschile.
Sua madre Prudenzia, moglie di Orazio Gentileschi, è morta dopo aver dato alla luce il sesto figlio, lasciando la gestione delle faccende di casa e della cura dei suoi uomini alla ragazza dodicenne. Il suo è un destino apparentemente già segnato.
Apparentemente. Artemisia Lomi Gentileschi nasce l’8 luglio 1593 a Roma. Primogenita di una famiglia di soli uomini, il suo destino è quello di una qualsiasi altra donna dell’epoca. Casa, famiglia, figli. Non c’è possibilità di studiare, imparare a leggere e scrivere. La donna è inquadrata in un ruolo e tale rimane. Ma Artemisia serba in sé un dono che non riesce a nascondere. Le sue mani, lunghe e affusolate, si muovono su tela con una “indecente” maestria. Suo padre, Orazio Gentileschi è un pittore della scuola caravaggesca e con Caravaggio, uomo geniale, rissoso, burbero, aggressivo, stringe un sodalizio che gli consente una crescita artistica non indifferente. La luce violenta che squarcia le tenebre, segno distintivo dello stile caravaggesco, fa da sfondo alla vita di Artemisia. Artemisia si muove fra luci ed ombre.
La luce che illumina il suo innato talento e la sua bellezza prorompente di adolescente disobbediente nei confronti delle regole imposte dal mondo misogino in cui cresce.
Le ombre, cupe, violente, rissose, dei tanti uomini che popolano il suo mondo, che parlano di donne con manifesta volgarità e poi dipingono splendide e gloriose madonne, sante ed eroine.
A poco a poco, Orazio cede e permette ad Artemisia di accostarsi all’arte. Le concede, suo malgrado, di essere il suo “garzone di bottega”. Un ruolo maschile per una ragazza. Scandalo per l’epoca. Ma il talento di Artemisia è prorompente e difficile da nascondere. Maneggia i colori del padre, mescola tinte, pulisce stracci e fabbrica pennelli fin dalla più tenera età. Quel gioco, ormai, si sta trasformando in qualcosa di più serio. Ora, Artemisia, inizia a dipingere le sue tele.
Ma Artemisia è una ragazza, una diciottenne abituata sì ad un mondo di uomini, ma pur sempre una adolescente, bella, sfrontata, passionale che insegue l’amore perfetto e che quando incontra Agostino Tassi, pittore, amico del padre, uomo dal cattivo carattere, litigioso e vanaglorioso, cede all’amore per costui convinta che lui l’avrebbe prima o poi presa in sposa.
Durante il processo per stupro, più e più volte, Artemisia mostrerà un anello pegno dell’amore del Tassi, anello che si dimostrerà solo simbolo di un imbroglio per godere della bellezza del corpo della giovane.
Artemisia, disonorata, vittima di una violenza consumata invocando l’amore, crea scandalo. Suo padre sollecita un processo per stupro nel quale sua figlia è doppiamente vittima del maschilismo dell’epoca. Lei, la vittima, diviene, in realtà, colei che si è concessa e lui, il Tassi, il colpevole, vittima della sfrontatezza della ragazza.
Artemisia è sola in un mondo fatto di uomini, un mondo misogino, un mondo in cui anche le poche donne che lo popolano le voltano le spalle: Tuzia, alla quale era stata affidata dal padre, dice che Artemisia più volte eludeva la sua sorveglianza per incontrare il Tassi. Poi è il turno delle levatrici che le fanno un’approfondita e violenta visita ginecologica.
Con gli uomini, Artemisia lo sa, bisogna combattere, difendersi, attaccare, ma quel che è più triste e sconcertante è che anche le donne la abbandonano, la feriscono, la isolano. Il corpo di Artemisia è il corpo del reato. Un corpo e un’anima umiliata, violentata, infamata. Un corpo e un’anima che non si arrendono.
D’altro canto, Artemisia è disobbediente e decide di non cedere alla brutalità del mondo che la circonda. Un corpo violato lo è per sempre, ma un’anima ferita è in grado di lenire le offese inferte e di comprendere che è ora di cambiare le regole. Obbedisce, se così si può dire, approfittando della “bontà” di Pietrantonio Stiattesi che si è offerto di prenderla in moglie. Capisce che è il modo per emergere dalle nefandezze del mondo in cui vive. Diventa moglie e madre. Finalmente obbedisce al compito imposto dai tempi. Ma, in realtà, quello è solo un ruolo. Lei fa un cammino solitario di emancipazione in cui detta le regole.
Ha lasciato Roma e si è stabilita a Firenze. Le voci corrono e Firenze sa chi è Artemisia e conosce la sua storia. In molti apprezzano Agostino Tassi, la sua pittura e sono disposti a dimenticare lo status di stupratore. Ma Artemisia ribalta la situazione in pochi anni.
A Firenze impara a leggere e scrivere e viene ammessa all’Accademia del Disegno diventando così la prima donna a ricevere questo onore.
In pochissimo tempo, Artemisia diventa una modernissima donna in grado di destreggiarsi perfettamente fra i tanti ruoli che ricopre nella sua vita: è madre, è moglie, è una pittrice molto ben voluta e affermata. Stringe amicizie che le permettono di guadagnare (e sperperare). È lei che gestisce il suo mondo. È sempre un mondo pieno di uomini, ma le regole sono cambiate. I rapporti con gli uomini li decide lei. A Firenze conosce il nipote del più famoso Michelangelo Buonarroti, conversa con dotti e accademici. Intesse un rapporto duraturo di amicizia con Galileo Galilei. Non ha più bisogno di un cognome con il quale presentarsi, ora è nota come “Artemisia pittrice”. Un obiettivo conquistato con la propria tenacia, con la propria intelligenza. Gli occhi che a Roma la scrutavano per scorgere il frutto del peccato, che la guardavano con concupiscenza, ora la ammirano, la rispettano, la stimano per il posto nel mondo che è riuscita a guadagnare con la sua arte. L’infamia si è trasformata in gloria.
Artemisia viaggia. Va a Londra per accompagnare il padre nei suoi ultimi giorni di vita. Riesce a far pace con quel padre che l’aveva sottoposta alla tortura del processo per stupro.
Poi c’è Venezia, di nuovo Roma e Napoli. Qui Artemisia si stabilisce fino alla fine dei suoi giorni.
Nel frattempo, la sua è una pittura al femminile. Le sue donne sono l’espressione delle esperienze di Artemisia. Sono eroine bibliche, come Susanna, ma anche personaggi della storia come Cleopatra. Sono donne che devono difendersi dal mondo misogino, ma soprattutto, sono donne con un corpo ed un’anima frutto della consapevolezza di una donna, Artemisia, che ha dovuto farsi strada in un mondo dominato dagli uomini, non abituato ad interfacciarsi con donne, femministe, del calibro di Artemisia Gentileschi, ma che ha dovuto riconoscerne la grandezza d’animo e la tenacia.
Con le sue mani belle e affusolate restituisce dignità a sé stessa, al suo corpo violato, alla sua anima umiliata, al corpo e all’anima di tutte le donne. (Magda Ramunni)
La fama di Artemisia si diffuse da una città all’altra e così le sue opere: ordini religiosi, prelati, regnanti, aristocratici apprezzarono la sua pittura, le richieste si moltiplicarono e non solo per opere destinate a chiese e corti, quanto soprattutto per le cosiddette “quadrerie”. Immancabili già dai secoli precedenti nei palazzi della grande aristocrazia laica ed ecclesiastica, ora si andavano diffondendo a macchia d’olio non solo nei “quarti” della media e piccola nobiltà, ma anche in quelli di mercanti e banchieri. L’ostentazione del prodotto artistico nella propria abitazione fu fenomeno tipicamente seicentesco e questo spiega l’affermarsi di una vera e propria “moda” del collezionismo che ebbe enorme rilievo, a livello culturale ed artistico, ma anche – e forse soprattutto- sociale, dal momento che prestigio e fama passavano anche attraverso il possesso di una ricca collezione di dipinti. Né mancarono ovviamente importanti conseguenze economiche, evidenti nell’affermarsi di un fiorente mercato dell’arte, a seguito di una richiesta di dipinti che cresceva esponenzialmente e che comportò sostanziali cambiamenti anche nell’organizzazione delle botteghe, che si fecero veri “negozi”, e nel rapporto tra artista e compratore (non più solo “committente”), mediato sempre più spesso dal mercante d’arte cui, in misura crescente, si dovrà il successo di un artista
Gli stessi soggetti, lungi dall’essere una libera scelta dell’artista (cosa in realtà mai o quasi accaduta) non erano vincolati dalla sola volontà del committente, ma anche dalle tendenze del mercato. Accanto a nuovi “generi”, Nature morte, Paesaggi, bambocciate (e in tal senso fu determinante la lezione di Caravaggio e della pittura emiliana), si verificò un importante rinnovamento di quelli “antichi”, ma troppo “nobili” per essere spazzati via: ci riferiamo ai soggetti sacri e storico-mitologici A partire dalla metà del secolo si registrò un calo delle richieste di dipinti di contenuto religioso con intenti devozionali, ma si moltiplicarono le richieste per particolari episodi “sacri”: Samaritane, Adultere, Maddalene, Betsabee, Susanne, Figlie di Lot, Giuditte, Carità romane divennero protagoniste: superato ogni retaggio moralistico, i dipinti del tempo -e quelli di Artemisia ne sono esempi di altissimo livello- ci consegnano splendide figure femminili, dai corpi floridi, morbidi, sensuali (mai volgari). Anche i soggetti storico- mitologici furono declinati secondo la stessa cifra, si moltiplicarono i dipinti in cui protagonisti assoluti divennero Venere, Venere e Cupido, Venere e Marte, gli amori di Giove, Lucretia, Cleopatra.
“Lucretia Romana, Betsabea, Susanna e simili empietà signorili della mitologia ebrea e latina” (R. Longhi) divennero particolarmente gradite al gusto dei collezionisti, poiché se, per un verso, si richiamavano ad una tradizione “colta”, per l’altro, la nuova ed evidente esaltazione dei connotati erotici e sensuali soddisfaceva il voyerismo dei proprietari. È questo il contesto in cui si mossero i collezionisti Giangirolamo II e Isabella Filomarino e in questo contesto vanno collocate e pensate l’attività di Artemisia, molto quotata anche a Napoli, e le tante eroine protagoniste delle sue opere. Questo contesto determinò “l’incontro”, non diretto (lei e Finoglio avevano avuto modo di lavorare insieme nella Capitale e non solo) tra la pittrice e i Conti, altrimenti inspiegabile.
Con i suoi oltre 400 dipinti, la “quadreria” Acquaviva si pone come un episodio di eccezionale valore e rilevanza per la Puglia, soprattutto per il suo spessore. Sebbene infatti non si debba credere che l’intera collezione sia nata dal nulla con Giangirolamo, è pur vero che i soggetti che in essa comparivano testimoniano quanto egli ed Isabella fossero aggiornati sui fatti d’arte, come testimonia la presenza di opere dei pittori tra i più quotati nella Napoli del tempo, Stanzione, Caracciolo, Reni, Fracanzano. Nella “quadreria” prevalevano inoltre le novità “seicentesche”: Nature Morte, scene di genere, ritratti di filosofi, paesaggi e in particolare quelle “eroine”, bibliche e non, di cui si è detto.
E nell’inventario della collezione, stilato alla morte del Conte, così avaro di nomi, spicca il nome di “Armitia Gentilesca ” alla cui mano è attribuita una “Carità” e sempre alla pittrice si deve sicuramente una delle due “Bersabea” (quella probabilmente collocata nella “Guardarobba del “quarto” di Giangirolamo) che ancora negli anni’30 del ‘900 compariva tra le opere acquistate dal professor Ramunni (venduta nel 1939 al Conte Manzolini, insieme alle tele della Gerusalemme Liberata e messa all’asta, nel 2011, non è stata acquistata dal Comune di Conversano, cui era stato peraltro riconosciuto diritto di prelazione). E nella “Carità romana”, esposta nel 2018 nella mostra Artemisia e i pittori del Conte, è stato individuato proprio il dipinto citato nell’Inventario del 1666.
Se Artemisia rimase lontana dalla frequentazione di Nature Morte e Paesaggi, probabilmente non sentendoli “affini” al suo temperamento di donna e di artista, ella ci ha lasciato indimenticabili figure di donne, intrepide e timorose, forti e spaventate, offese e ribelli, eroiche e sensuali -ma caste-, pietose, come la “nostra” Carità.
In realtà il soggetto raffigurato è direttamente ispirato all’episodio, citato nei Facta et Dicta memorabilia di Valerio Massimo, quale paradigma di pietà filiale. L’anziano Cimone, condannato a morire di fame in carcere, viene salvato dalla figlia Pero, che lo nutre di nascosto con il proprio latte.
L’episodio diede vita all’ iconografia della cosiddetta Carità Romana, che conobbe una fortuna straordinaria nel Seicento, dopo che Caravaggio lo incluse nelle “Sette opere di Misericordia”.
Molto frequentato dai caravaggeschi (e non solo), questo soggetto entrò a far parte della produzione di opere di carattere erudito e sensuale, concepite per attrarre i collezionisti e mercanti d’arte (e pertanto la Carità della Gentileschi nella collezione Acquaviva non mi pare probabile sia il frutto di una specifica commissione da parte dei Conti, ma, più probabilmente, a mio parere il dipinto era di quelli che nelle botteghe-negozio del tempo erano pronti per l’acquisto).
Come in tante opere di Artemisia, la scena è inquadrata su uno sfondo scuro, squarciato (e la lezione di Caravaggio e dei fiamminghi è indubbia) da un potente fascio di luce che investe i due protagonisti che così emergono con potente forza plastica e forte suggestione drammatica. Un palcoscenico buio, improvvisamente illuminato da una luce diagonale, che rivela i protagonisti della storia in atto.
Pero, di tre quarti, che porge il seno al vecchio genitore e con un braccio sembra proteggerlo e consolarlo; Cimone, exemplum di resa naturalistica di un corpo segnato dagli anni e dalle privazioni (miracolo reso possibile dal virtuoso uso della luce), che si volge indifeso verso quella figlia-madre.
Pero, ancora, protesa verso il padre, si guarda, però, alle spalle: il suo volto, più che vederlo, lo intuiamo.
Artemisia è magistrale nella costruzione di un climax che si fa teso: deve farci percepire il timore di chi sa di poter essere scoperto e avverte il rischio di un precipitare del dramma; da sinistra verso destra cresce la tensione, dalla rassegnazione di una vecchiaia inerme e fragile alla inquietudine animata della giovane donna, così come cresce la composizione, dal basso verso l’alto, dalla luce all’ombra.
E ancora di Artemisia è quel restituire e indugiare sulla morbidezza delle stoffe, sulla freschezza dei lini e sulla plastica matericità del panno (sebbene altrove abbia dato prove sicuramente superiori).
Con una sensibilità tutta femminile indaga l’indifeso Cimone, padre-figlio, con una tenerezza che, pur nella resa veridica della decadenza di un corpo, un tempo vigoroso, non si fa mai crudo e spietato realismo e allo stesso modo fa di Pero un esempio di quella forza, di quel coraggio, di quello sfidare l’autorità e il pericolo, propri delle donne, quando ad essere in ballo sono gli affetti profondi, radicati, l’esigenza di proteggere e preservare la vita.
Artemisia è grande pittrice, certo attenta ai gusti, alle richieste di quel mercato che fa di lei una donna indipendente e celebre, ma capace di raccogliere la lezione di Caravaggio, mediata dal padre, nonché quella dei grandi pittori emiliani, e farla sua, manipolando la luce, per farne sostanza vibrante, addensando le ombre per restituire il senso drammatico e teatrale proprio della sensibilità seicentesca.
Ben conosce gli occhi che frugheranno le belle forme delle sue figure femminili, ma evita ogni morbosità, ogni insistenza fine a sé stessa, quei corpi, pur nella loro indubbia sensualità, sono capaci di raccontare di volta in volta la spietata vendetta di Giuditta, il pudore violato di Susanna e il suo dolore, la tenerezza di Pero, la sensualità di Danae, il coraggio di Lucretia. Ma Giuditta, Pero, Susanna, Danae, Lucretia non sono donne diverse, sono piuttosto le diverse declinazioni di quel femminile, molteplice, contraddittorio, sfuggente cui Artemisia ha dato forma e voce. (Candida De Toma)