Le epifanie della memoria sono in alcuni casi misteriose e sorprendenti. Come quando capita, d’improvviso, di ritrovarci a cantare, senza alcun motivo o avvisaglia, un motivo sepolto nel nostro passato. Non sappiamo perché sia venuto fuori epperò ci lasciamo cullare dal rivivere le sue emozioni remote.
Questo mi è capitato quest’oggi con la canzone “Vanità di vanità” di Angelo Branduardi. Erano anni che non mi veniva in mente, eppure è riemersa. Nel canticchiarla mi sono reso conto che alcune frasi potevano ben prestarsi ad una riflessione da sassolino. E così mi accingo a fare.
Il mito di Narciso e del suo innamorarsi della propria immagine ha avuto infinite realizzazioni nella storia. Ma oggi più che mai, con l’avvento prima della televisione e poi dei social, ha raggiunto livelli parossistici. Siamo circondati da persone che antepongono se stessi a tutto il resto, avvalendosi delle casse di risonanza dei media e di internet, ove la forma conta molto più della sostanza. Oggi impera l’oggi, verrebbe da dire. Dimenticandosi del domani.
Eppure la canzone di Branduardi ci ricorda che tutto è vanità e che il memento mori di antica memoria non ha smesso – e non smetterà – di riapparire con la sua ingombrante e inquietante onnipresenza.
E per chiudere con un calembour che riprenda la frase iniziale, dobbiamo smettere di guardarci troppo allo specchio senza riflettere.