Sono sempre stato convinto che i problemi fondamentali attinenti all’esistenza e al mistero della stessa siano una costante universale dell’uomo in qualsiasi epoca egli sia vissuto e in modo del tutto indipendente dal suo livello culturale. Sia che egli vivesse nelle caverne che in questa età contemporanea in cui quasi tutto lo scibile, cresciuto in modo esponenziale, è ormai disponibile elettronicamente, egli è solo e indifeso di fronte all’enigma della vita e della morte.
Vero è, comunque, che uno scrittore o un poeta può essere in grado di tentare di dire in modo profondo il suo pensiero su questo mistero. È questo il caso.
Tiziano Scarpa, nel suo bel romanzo “Stabat Mater”, ambientato nella Venezia settecentesca di Antonio Vivaldi, e in particolare in un orfanotrofio femminile, mette in bocca alla giovane protagonista questa riflessione, capace di condensare in poche parole quello che ognuno di noi inconsciamente fa nella sua vita.
Constatato che nasciamo condannati a morte, reagiamo e fuggiamo da questa idea. Il nostro fare, il nostro agire, il nostro vivere, è una fuga ininterrotta contro la morte. Una grande fuga verso la vittoria dell’esserci.