La frase in questione è molto impegnativa perché si presta a tante interpretazioni. Mi permetto di darne una personale.
Oggi uno degli utilizzi più cattivi e maldestri del nostro linguaggio – mi riferisco a noi italiani – è infarcirlo fino all’inverosimile di termini stranieri, principalmente anglofoni.
È una tendenza che va avanti da qualche anno ma che ultimamente ha raggiunto, a mio avviso, dei livelli davvero preoccupanti.
Racconto un episodio personale. Durante la prima drammatica fase della pandemia da Covid-19 ero in coda in un “hub” (ecco che senza neanche farlo apposta è venuto fuori uno dei termini anglofoni) vaccinale, in attesa del mio turno. All’epoca la prima vaccinazione fu fatta a fasce di età, a partire dagli ultra ottantenni e poi a scalare. Ad un tratto si presentò un giovane che si mise in coda. Uno dei presenti si permise di chiedergli come mai fosse lì, data la verde età. Lui rispose: “Sono un caregiver”. Il suo interlocutore non capì, e il giovane fu costretto a spiegare che era un assistente di un anziano, e che pertanto aveva diritto di precedenza.
Qualche giorno fa mi è capitato di leggere un modulo per l’assistenza domiciliare sanitaria. Nel modulo era presente il termine “caregiver”. Sta entrando stabilmente nella prassi quotidiana.
Possibile che nella nostra lingua, quella di Dante e di Manzoni, non sia possibile trovare un termine al posto di quello orribile che non ho voglia più di pronunciare?
Bisognerebbe cominciare a parlarne, di questa invasione. E ad opporsi, laddove possibile, senza con questo giungere a livelli censori e assoluti, perché certi termini sono ormai definitivamente entrati nell’uso quotidiano.
Ne va del nostro patrimonio linguistico strettamente legato alla nostra civiltà, che rischia un lento e strisciante declino. Ok?