La Poesia ha questo compito sublime: di prendere tutto il dolore che ci spumeggia e ci romba nell’anima e di placarlo, di trasfigurarlo nella suprema calma dell’arte, così come sfociano i fiumi nella vastità celeste del mare.
Oggi cercherò di fare un esperimento, quello di scrivere un sassolino che parli un po’ anche di se stesso e del modo in cui talvolta si forma.
Fortemente turbato da quanto accaduto in Emilia-Romagna, con la terribile esondazione di tanti – troppi – fiumi che hanno provocato alluvioni catastrofiche, ho cercato nel mio archivio personale delle citazioni qualcosa che avesse a che fare con la parola “fiume”.
Mi sarebbe piaciuto trovare qualcosa che fosse una riflessione sui cambiamenti climatici, di cui ormai è ampiamente dimostrato che l’uomo è diventato un colpevole complice, checché ne dicano i negazionisti, che si nutrono di antiscienza e finiscono semplicemente per fare il gioco di chi pensa solo a fare affari, disinteressandosi di quelli che sono gli impatti ambientali.
Non ho trovato nulla di specifico, ma talvolta capita che nel ricercare qualcosa di interessante si finisca col trovare dell’altro che, pur non avendo strettissima attinenza con la ricerca iniziale, finisca con l’includerla in un discorso più ampio.
È questo il caso. La frase della poetessa Antonia Pozzi è davvero un’intima e profonda riflessione sul valore taumaturgico della poesia, quale fonte suprema cui attingere quando il dolore entra in noi e ci invade, come un’alluvione. A questa alluvione i versi poetici e l’arte stessa pongono dei solidi argini, sì da convogliare le agitate e turbolenti acque del dolore nel vasto, calmo e accogliente mare.