Fu nel 2008 che uscì il libro “Uomini e caporali” in cui un giovane giornalista e scrittore tarantino, Alessandro Leogrande, purtroppo in seguito prematuramente scomparso, aprì uno squarcio sul drammatico sfruttamento dei raccoglitori di pomodori in Capitanata.
Questi nuovi braccianti, non più italiani, ma stranieri di diversa provenienza, erano costretti a lavorare in situazione di sfruttamento estreme, al limite della schiavitù, ricontestualizzando situazioni descritte in passato in romanzi come “Fontamara” di Ignazio Silone e “Cristo si è fermato a Eboli” di Carlo Levi.
La considerazione che trapela dalla frase riportata porta a rilevare una cortina di omertà che si cela sulle condizioni di vita in cui quei lavoratori sono soggetti.
A oltre quindici anni da quel drammatico romanzo-inchiesta, ritengo di poter immaginare che la situazione dello sfruttamento lavorativo, in Italia e nel mondo, è ancora lungi dall’essersi estinta.
E mi riferisco non soltanto al contesto agricolo. Infatti l’incredibile evoluzione delle forme nuove di lavoro – pensiamo ai call center, alle vendite online legate alle consegne a domicilio, nonché al sottobosco mondiale delle delocalizzazioni e alle migrazioni, stagionali e non – credo contribuisca molto più facilmente che in passato all’insorgenza di situazioni di sfruttamento estremo. Magari ora in modo più subdolo e sfuggente.
Senza voler andare oltre nell’indagine, che esula dal presente ambito, bisognerebbe rifarsi ad un monito di Papa Francesco allorquando ha richiamato la necessità di non dimenticare mai le condizioni in cui la persona svolge un’attività lavorativa. Solo così non correremmo il rischio di far subire una mutazione ad una famosa frase che diverrebbe, con un gioco di parole: “Il lavoro snobilita l’uomo”.