Feci il viaggio insieme a Calvino. Mi arrabbiavo con lui perché pareva che non vedesse niente. Io sapevo tutto dell’Iran e tentavo di parlargliene. E lui sembrava fregarsene. Poi ad anni di distanza scrisse degli articoli bellissimi su quel viaggio. Aveva quell’occhio annoiato che trafiggeva tutto ciò che lo circondava. È un dono che hanno solo gli scrittori veri (Pietro Citati)
Ho sovente fatto ricorso in questi sassolini a scritti sia di Italo Calvino che di Pietro Citati. Questa volta è il caso di una frase che riguarda un episodio in comune. Ciò che emerge merita una riflessione. Il grande critico letterario rimane impressionato, prima negativamente e in seguito con malcelata sorpresa, del comportamento dello scrittore suo amico, il quale apparentemente sembra disinteressarsi di ciò che il viaggio gli proponeva, salvo poi scrivere tanto tempo dopo dei resoconti bellissimi.
Emerge quella cosa misteriosa che definirei sguardo interiore profondo, che solo poche persone hanno e che ancor meno riescono in seguito a far emergere in modo mirabile attraverso i loro scritti. È il talento che entra in ballo e che fa la differenza.
Ma accanto a questa considerazione positiva vi è anche una nota più melanconica. Il grande scrittore vive la sua capacità di scrutare le cose del mondo in grande solitudine, essendo incapace a tutta prima di esternare il suo pensiero perfino con le persone più amiche e a lui più vicine.
È solo quando riesce a mettere nero su bianco, magari dopo anni, quando il magma dei propri pensieri riesce finalmente ad eruttare sul foglio bianco, che quella solitudine si rompe. Ma è una rottura del tutto fittizia, perché l’autore riesce infine a parlare solo tramite la sua opera, che diventa quasi un ente a se stante.
Verrebbe in chiusura da dire che per lo scrittore nel rapporto con la sua opera valga, con tutte le dovute proporzioni e in forma laica, la famosa frase biblica: “E il verbo si fece carne ed abitò fra noi.”