L’UCCELLO FERITO
Ferito mortalmente in mezzo al core
imprecava un Uccello all’aspra sorte.
E diceva inghiottendo il suo dolore:
A noi noi stessi procacciam la morte!
Ché non sarìa così presto e fatale,
se delle nostre penne
non rinforzasse il cacciator lo strale.
Razza crudele! Ci consola in fondo
il veder questa gente altera e scaltra
che, da che mondo e mondo,
una metà sempre distrugge l’altra.
(Jean de La Fontaine)
È bello e triste al contempo scoprire una favola meno nota di La Fontaine che si rivela drammaticamente attuale, in questi tempi in cui i venti di guerra e di distruzione stanno spirando impetuosamente, con il loro carico di dolore e di morte.
Il povero uccello ferito a morte si duole del fatto che la freccia che lo ha colpito termina con le stesse penne di cui è fatto, che rendono l’arma più precisa e letale. E nel morire è magra la sua consolazione che la razza umana da sempre si divide e si autodistrugge.
In questa favola intravedo la corsa agli armamenti, la caccia agli animali fatta per mero sport, le guerre vane. La morale è di un’amarezza senza fine che richiama la famosa frase di Hobbes “Homo homini lupus”.
Ma tornando a La Fontaine e alle sue favole in versi e in rima, chiuderei con un’autocitazione. Anni fa volli cimentarmi in una composizione poetica alla maniera di La Fontaine. Pensai ad una talpa – di sesso maschile per questioni di rima baciata – che vive sotto il paradiso terrestre. Avendo saputo di questo posto bellissimo, cerca di uscire dai suoi tunnel per vederne lo spettacolo. Triste sarà per lui, una volta uscito all’aperto, di constatare di essere cieco e di non godere della bellezza del creato. Il finale è conseguente e la morale la lascio alla libera interpretazione del lettore.
LA TALPA DI ADAMO
Scavare tunnel è il tuo destino
e tra gli snodi del tuo cammino
cerchi la svolta – ne sei convinto –
che faccia uscirti dal labirinto.
Ma tu non sai che il sol colore
che la tua vista ha con nitore
è il tetro nero, cupa coperta,
che tu ora vedi all’aria aperta.
Così dell’Eden ove sei emerso
ti si preclude il bel cielo terso,
tale da indurti con forte duolo
a far ritorno nel sottosuolo.