Che tu possa incontrare il trionfo e il disastro e fronteggiare quei due impostori nello stesso modo (Rudyard Kipling)
Questa frase campeggia all’ingresso del campo centrale di Wimbledon, ove si svolge il più importante torneo di tennis al mondo, che è appena iniziato. Sono inoltre nel pieno svolgimento i campionati europei di calcio, che stanno tenendo incollati ai teleschermi milioni di tifosi del vecchio continente. E le Olimpiadi sono ormai alle porte.
Tutto questo per dire che ormai lo sport e la competizione sono entrati, forse ancora più che in passato, in modo ingombrante nella vita di tutti i giorni, visto anche l’enorme giro di interessi che si portano dietro.
Persino il film record di incassi al cinema, “Inside Out 2”, che ruota attorno al ruolo invasivo dei sentimenti, ha come vicenda principale l’entrata nella nuova squadra di hockey della protagonista, quale viatico della sua futura integrazione e successo.
Ormai sembra privata di qualsiasi attenzione la frase del fondatore dei Giochi olimpici moderni, il barone Pierre de Cubertin, che ebbe a dire che “l’importante è partecipare, non vincere”.
Oggi invece non si pensa che alla vittoria, e, talvolta, anche l’arrivare secondi è sinonimo di sconfitta totale e di promessa di oblio.
Eppure la frase di Kipling ammonisce che non è solo della sconfitta che dobbiamo preoccuparci, ma anche della vittoria, con quel suo senso onnipotente di appagamento che può fare male più del suo antipode, che ha almeno il vantaggio di creare uno sprone a fare meglio.
Quante volte abbiamo visto grandi campioni che una volta terminata la carriera sono diventate delle larve umane incapaci di trovare un nuovo ruolo nel mondo? Tantissime.
E allora si dovrebbe recuperare il senso della partecipazione come unico grande valore dello sport, la sola in grado, come cantava Giorgio Gaber, di condurci verso la libertà.