Quand’ero ragazzino e adolescente, frequentavo assiduamente la sezione di Azione Cattolica della mia parrocchia.
Ebbene, una delle figure di riferimento che emergevano in modo esemplare era quella di Albert Schweitzer.
Quest’uomo di origine tedesca, nato in una terra, l’Alsazia meridionale, contesa con la Francia, fino a trent’anni brillò non solo per la sua laurea in filosofia e teologia, ma anche come notevole organista specializzato nell’inarrivabile repertorio bachiano.
Poi ebbe quello che sarebbe il caso di dire un particolare richiamo della foresta, che lo spinse verso il cuore dell’Africa, il Gabon, non prima di essersi laureato con successo in Medicina, allo scopo di mettere su una struttura ospedaliera, per combattere le tante malattie di cui soffriva quella popolazione, in particolare la lebbra.
Il perché di questa svolta lo scrisse nelle sue memorie:
“Il progetto che stavo per mettere in atto lo portavo in me già da lungo tempo. La sua origine rimontava ai miei anni di studentato. Mi riusciva incomprensibile che io potessi vivere una vita fortunata, mentre vedevo intorno a me così tanti uomini afflitti da ansie e dolori.”
E così intraprese una missione laica africana che lo coinvolse per tutta la sua lunga vita. Ogni tanto rientrava in Europa, sia per vicissitudini politiche che per cercare nuovi finanziamenti, che otteneva anche grazie a concerti per organo, di cui non aveva perso il talento come esecutore.
I suoi studi filosofico-teologici gli permisero, in parallelo alla sua faticosa attività di medico, di essere anche un riferimento mondiale per la profondità del suo pensiero.
Infine, negli anni successivi alla Seconda Guerra Mondiale, con la scriteriata corsa agli armamenti delle due superpotenze, fu uno strenuo oppositore, spalleggiato da persone come Albert Einstein, delle armi nucleari.
Per tutte queste cose, nel 1952, fu insignito del Premio Nobel per la Pace.
Ciò mi è venuto in mente, e mi fa piacere ricordare in queste righe, dopo aver casualmente letto la frase citata all’inizio. Una frase che lega ossimoricamente la massima saggezza al mistero dell’esistenza e che getta un ponte plurimillenario con un altro grande pensatore, Socrate, che ebbe a dire le seguenti definitive parole:
“Il vero saggio è colui che sa di non sapere.”