di Vito Fanizzi (magistrato Corte d’Appello di Bari)
“Nessuno di noi vuole garantire impunità ai colletti bianchi, puntiamo a tutelare tutti i cittadini e ogni abuso va perseguito. Infatti è già stato introdotto un reato per evitare lacune e in cantiere c’è una riforma complessiva di tutti i reati contro la Pubblica Amministrazione… Non replicheremo gli errori del passato: no a svuota-carceri”. Giulia Bongiorno, Presidente della Commissione Giustizia del Senato, 18 agosto 2024.
Alla fine, nonostante le eloquenti esitazioni del Presidente Mattarella, gli impegni internazionali e le opinioni dei più importanti professori italiani di diritto penale, è accaduto. Il reato di abuso d’ufficio è stato cancellato dal nostro ordinamento. L’art. 323 del codice penale, la norma che puniva le prevaricazioni, i conflitti di interessi, i favoritismi dei pubblici funzionari, non c’è più.
Il funzionario comunale che rilascia una concessione in sanatoria in presenza di abusi insanabili, al fine di avvantaggiare il proprietario dell’immobile. Il pubblico funzionario che affida lavori in modo diretto ad un suo amico, senza passare per la gara prevista per legge. Il professore universitario che non si astiene nella procedura del concorso al quale partecipa la sua amante. Il pubblico ministero che nasconde una prova favorevole all’imputato per arrivare comunque alla sua condanna.
Tutte queste persone non devono più temere conseguenze penali.
Ci vuole coraggio per affermare che “ogni abuso va perseguito”, sapendo di cancellare centinaia di condanne che in modo definitivo quegli abusi hanno accertato (l’abolizione d’un reato comporta la cessazione di ogni effetto penale delle condanne già intervenute). Ci vuole coraggio, forse malafede, per dire che un nuovo reato è stato introdotto per evitare lacune, sapendo che la “indebita destinazione di denaro o cose mobili”, entrata in vigore lo scorso 4 luglio, intercetta solo una minima parte degli abusi d’ufficio. Ci vuole coraggio, nella situazione attuale delle carceri, per pensare anzitutto ai “colletti bianchi” e ribadire ancora una volta che il carcere è affare di tossicodipendenti, extracomunitari, malati psichiatrici, giovani partecipanti ai rave party; o per tollerare, dopo l’abrogazione dell’art. 323, la permanenza nel codice penale del reato di accattonaggio, per fare un esempio, fortemente voluto nel 2018 dallo sponsor politico dell’Avv. Bongiorno.
Al Ministro della Giustizia Nordio, il quale afferma che lo squilibrio tra iscrizioni delle notizie di reato e condanne per abuso d’ufficio è indicativo d’una “anomalia”, ha risposto il Prof. Donini dell’Università La Sapienza: “quando uno Stato abolisce i reati per fermare i pubblici ministeri, invece di riformare l’azione penale e di migliorare la formazione la cultura dei magistrati, ha raggiunto un livello di crisi istituzionale inconfessabile” (anche il reato di riduzione in schiavitù, per fare un altro esempio, è oggetto di condanne non numerose, ma nessuno dubita della gravità del reato).
Ai tanti politici e amministratori che adducono la “paura della firma”, va ricordata la rigorosa formulazione dell’art. 323 abrogato, frutto di molteplici interventi negli anni finalizzati proprio a limitare la responsabilità agli abusi più gravi ed eclatanti: “Salvo che il fatto non costituisca un più grave reato, il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità, ovvero omettendo di astenersi in presenza d’un interesse proprio o d’un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto, è punito con la reclusione da uno a quattro anni”. Credo di non poter essere smentito se affermo che nessuna norma del codice penale prevede una formulazione così rigorosa e tassativa, a tutela dei cittadini. La “paura della firma” è un comodo alibi.
Si sa poi che le norme penali devono tutelare solo i beni più importanti, di rilievo costituzionale. Nel caso in esame il bene tutelato è delineato in modo chiaro e netto dall’art. 97 della Costituzione ed è quello dell’imparzialità della pubblica amministrazione. L’ufficio pubblico non è il tinello di casa.
Il significato complessivo dell’operazione è svelato dalle parole con le quali il Ministro della Giustizia ha presentato la riforma al Parlamento (ed anche dalle suindicate parole dell’Avv. Bongiorno): “Resta ferma, peraltro, la possibilità di valutare in prospettiva futura specifici interventi additivi volti a sanzionare, con formulazioni circoscritte e precise, condotte meritevoli di pena in forza di eventuali indicazioni di matrice euro-unitaria che dovessero sopravvenire”. Il Ministro sa che l’ordinamento penale non può tollerare il vuoto di tutela che si è determinato. Il Ministro sa che quelle indicazioni “euro-unitarie” già ci sono e non imponevano alcuna abrogazione. Il reato di abuso d’ufficio rientrerà ma per il momento, non si sa perché (ma si intuisce), era necessario cancellare le condanne intervenute. Nel frattempo è stato anche riscritto l’art. 346-bis del codice penale, che punisce il traffico di influenze illecite. Anche qui non mancheranno effetti positivi per alcuni condannati “eccellenti”.
Alla fine, questa vicenda di mezza estate ripete per l’ennesima volta una storia vecchia quanto la giustizia degli uomini. Nel 1542 il genio di Rabelais ha immortalato la storia nelle parole dell’orrido Mordigraffio, giudice supremo dell’isola di Sportello: “Le nostre leggi son come tele di ragno. Le farfalle, i moscerini vi restano impigliati; ma i grossi tafani le rompono passandovi attraverso. Conseguentemente, noi non andiamo in cerca di grossi ladroni e di tiranni. Son troppo duri da digerire. Essi ci farebbero ammattire. Invece a voialtri graziosi innocentini c’è qui il gran diavolo, che vi canta la messa” (Gargantua e Pantagruele, V – 11). Anche nel Tribunale di Mordigraffio campeggia l’immagine della Giustizia: una vecchia con gli occhiali al naso, un falcetto nella mano destra e, nella mano sinistra, una bilancia i cui piatti sono sbilanciati da un mucchio di monete.