di Vito Fanizzi (magistrato Corte d’Appello di Bari)
“L’unico scopo che autorizzi l’esercizio del potere nei confronti di un qualsiasi membro di una comunità civile contro la sua volontà è quello di evitare un danno agli altri.
Il fatto di far nascere un essere umano è di per sé una delle azioni più cariche di responsabilità nel corso della nostra vita”.
John Stuart Mill, La libertà (1858)
Il 5 dicembre 2023 alcune associazioni antiabortiste hanno proposto una modifica della legge n. 194 del 1978: si tratta di introdurre, nella visita che precede l’interruzione volontaria di gravidanza, l’obbligo per il medico di far vedere alla donna il nascituro, per il tramite di esami strumentali, e farle ascoltare il battito cardiaco. La proposta riproduce un’analoga norma vigente in Ungheria e segnala un clima, in questo momento storico dell’Italia, non proprio favorevole al delicato assetto normativo raggiunto nel 1978.
Alle associazioni citate, infatti, va ricordato che l’aborto, in Italia, non esiste perché c’è la legge n. 194. E’ la legge n. 194 ad esistere in conseguenza dell’aborto, allora largamente praticato nelle forme dolorose e cruente che si conoscono (“dal fatto scaturisce il diritto”, affermavano gli antichi giuristi). All’epoca, le forze politiche raggiunsero un delicato equilibrio tra il “diritto” del concepito, potenziale ed irripetibile essere umano, ed i possibili danni o pericoli gravi alla salute fisica o psichica per la donna, in conseguenza del parto.
Non mancarono prese di posizione critiche da parte di intellettuali come Pier Paolo Pasolini, Norberto Bobbio, Alex Langer. Una “buona legge”, si è sempre detto. E tuttavia l’applicazione della legge negli anni, pur avendo eliminato quelle forme cruente e forse ridotto il numero degli aborti rispetto a quel passato, ha portato ad una progressiva cessione di campo: dalla giustificazione dei possibili danni alla salute alla libera disponibilità della gravidanza da parte della donna. Oggi, per abortire, è sufficiente presentarsi ad un consultorio o ad una struttura socio-sanitaria, nei primi novanta giorni della gravidanza, ed esprimere la volontà di interruzione. Allo stesso modo, sono progressivamente rimaste nell’ombra le disposizioni dell’art. 5 della legge n. 194, che avrebbero dovuto costituire il fulcro dell’approccio al problema: l’esame delle possibili soluzioni dei problemi proposti, l’aiuto a rimuovere le cause alla base della prospettata interruzione, a far valere i diritti di lavoratrice e di madre, la promozione di ogni opportuno intervento atto a sostenere la donna, sia durante la gravidanza sia dopo il parto.
“Nessuno potrebbe dirsi, con sincerità, indifferente al fatto che la sua vita fosse stata recisa in un momento precoce della medesima” (Luciano Eusebi). E la Corte Costituzionale, nella sentenza che nel 1975 dichiarò l’illegittimità dell’art. 546 del codice penale allora vigente: vanno predisposte “le cautele necessarie per impedire che l’aborto venga procurato senza seri accertamenti sulla realtà e gravità del danno o pericolo che potrebbero derivare alla madre dal proseguire la gestazione”. Altri dovrebbero essere, allora, gli ambiti degli interventi normativi, finalizzati a recuperare l’ispirazione della legge senza infliggere inutili umiliazioni alla donna che ha fatto la drammatica scelta di abortire.
Il vento che spinge le iniziative antiabortiste ha spinto i gruppi parlamentari dell’attuale maggioranza di governo a presentare una serie di progetti di legge che mirano ad estendere il reato che punisce la maternità surrogata, l’art. 12 della legge n. 40 del 2004, ai casi di realizzazione all’estero da parte del cittadino italiano. Qui il discorso è diverso. Pesano per logica ed autorevolezza le parole scritte dalla Corte Costituzionale in una sentenza del 2021: la pratica della maternità surrogata “offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane”.
Possono essere utili due vicende tratte dalla cronaca recente. In Gran Bretagna, dove è consentita solo la surrogazione “altruistica”, quindi a titolo gratuito, una donna che aveva messo al mondo un figlio nell’interesse di una coppia omosessuale, consegnato il bambino, ha portato all’attenzione di un giudice il bisogno di mantenere un rapporto con lui, di trascorrere del tempo con lui. Nella sua sentenza la giudice dell’Alta Corte Lucy Theis ha affermato che il bambino stava crescendo bene con i due uomini, ma quella donna doveva essere riconosciuta come una “parte viva” della sua esistenza. Il 22 luglio del 2021, intorno alle 17, una donna ha bussato alla porta dell’ambasciata italiana di Kiev. A lei una coppia di Novara aveva consegnato la bambina lì nata con una procedura di maternità surrogata, dopo aver pagato migliaia di euro ad una ragazza ucraina (quella legislazione ammette anche la procedura “commerciale”), la coppia si era poi dileguata senza completare la procedura di riconoscimento. La bambina è stata poi portata in Italia con un volo della Croce Rossa e affidata ad una famiglia adottiva. Anche in questo caso credo che non si possa restare insensibili al groviglio di relazioni potenzialmente configurabili, incerte e confuse, se si pensa che la maternità surrogata può coinvolgere fino a cinque persone (i due genitori d’intenzione, l’uomo e la donna che forniscono il gamete maschile e l’ovocita, la donna che mette a disposizione il suo utero). Le iniziative legislative citate mirano a scoraggiare il desiderio di paternità o maternità legato a queste situazioni, ed il “turismo” connesso, e non sembrano deprecabili.
Oggi i diritti, “anziché servire lo scopo originario di baluardo della persona umana contro le degenerazioni del potere”, tendono a diventare essi stessi “strumenti di potere” sulla persona ovvero espressione di “semplici interessi di alcuni gruppi” (Marta Cartabia). In parole più semplici, i desideri non sono diritti. Le parole di Stuart Mill ci ricordano che ogni diritto non riguarda soltanto la persona che ne è titolare ma anche il complesso di rapporti nel quale la persona è inserita. Ciò è tanto più vero quando questa dimensione coinvolge soggetti meno in grado di difendersi.
Complimenti, riflessione sulla vita nascente e sull’aborto davvero di spessore. Grazie, sono socia di una rete culturale che si propone di diffondere il valore del bimbo concepito per tentare di arginare la deriva abortista che ormai permea la nostra società.