Nello scrivere questo sassolino l’ultimo giorno di carnevale, ho cercato di pensare a un tema che ne avesse a che fare. E rammentando il famoso adagio che dice che “A carnevale ogni scherzo vale”, la mia memoria è andata a un libro di Milan Kundera il cui titolo è “Lo scherzo”.
Il grande scrittore cecoslovacco terminò di scrivere il suo primo romanzo nel 1965, ossia mezzo secolo fa. E mezzo secolo fa alcuni miei amici mi fecero il più strano degli scherzi. Vennero a trovarmi a casa vestiti a maschera e mi ingiunsero di fare altrettanto. Ero molto riluttante alla cosa, ma poi, convinto dalle mie due sorelle, che si misero subito a cercare cose da mettermi addosso – all’epoca funzionava così – finii con l’assentire. Così vestiti in maschera andammo alla volta di Putignano, ove entrammo tranquillamente nel seguito del corteo e dei carri. Oggi tutto ciò non sarebbe stato possibile in quei termini. Mi divertii tantissimo e pensai che lo scherzo era riuscito benissimo.
Non si può dire la stessa cosa dello scherzo del romanzo. Esso è ambientato in Cecoslovacchia a partire dal 1948, l’anno in cui in quel Paese si impose la dittatura comunista. Il protagonista è uno studente universitario brillante e ironico, che pensando di fare uno scherzo alla sua ragazza, le invia in privato una cartolina in cui era scritto: “L’ottimismo è l’oppio dei popoli!”. La ragazza invece, prese sul serio tale scritto e in breve la vita del protagonista fu distrutta. Fu espulso dal partito e dall’università.
Ora, per capire meglio lo sviluppo di quei fatti, e anche la frase citata, bisogna dire che i regimi totalitari, di qualunque colore essi siano, vivono sempre un paradosso molto eclatante: da un lato dicono di essere seguaci dell’ottimismo, dall’altro perseguitano chi fa dell’umorismo – che è il primo figlio legittimo dell’ottimismo – il suo modus vivendi.
A questo proposito, sempre nel romanzo, Kundera scrive:
“Gli scherzi naturalmente si accordavano poco con lo spirito dell’epoca. Era il primo anno dopo il febbraio del quarantotto; era iniziata una nuova vita, e il volto di questa nuova vita era di una rigida serietà, ma lo strano era che questa serietà non era mai imbronciata, al contrario, aveva un aspetto sorridente; sì, quegli anni si autoproclamavano i più radiosi fra tutti, e chi non si dimostrava felice era immediatamente sospettato di essere triste”.
E poco dopo soggiunge:
“La gioia di quell’epoca non amava le buffonate e l’ironia, era una gioia, come detto, seria, che si fregiava con orgoglio del titolo di ‘ottimismo storico della classe vittoriosa’, una gioia ascetica e solenne, insomma la Gioia”.
Questi ultimi brani mi fanno ricordare una intervista, letta decenni or sono su un quotidiano nazionale, di uno scrittore e dissidente sovietico, rifugiatosi in Occidente, che disse che quando era in patria la censura gli tagliò la dedica di un suo libro, che – vado a memoria – diceva più o meno così:
“A mia moglie, che mi è stata vicina nei tanti momenti di malinconia”.
Insomma, non si poteva essere malinconici nei regimi in cui l’ottimismo è di Stato.
Per tornare al bel romanzo di Kundera, non svelo il suo svolgimento, qualora qualcuno lo volesse leggere. Sicuramente al povero protagonista avrebbe fatto piacere se si fosse verificato un altro nostro vecchio adagio che dice che:
“Lo scherzo è bello quando dura poco”.