“Io vi saluto, madri piene di grazia, sante sentinelle, coraggio e bontà, calore e sguardo d’amore, voi che avete occhi che indovinano” (Albert Cohen)

Io vi saluto, madri piene di grazia, sante sentinelle, coraggio e bontà, calore e sguardo d’amore, voi che avete occhi che indovinano, voi che sapete immediatamente se i cattivi ci hanno procurato dolore, voi, unici umani in cui possiamo avere fiducia e che mai, mai ci tradirete, io vi saluto, madri che pensate a noi senza posa, perfino nei vostri sonni, madri che perdonate sempre e accarezzate le nostre fronti con le vostre mani avvizzite, madri che ci aspettate, madri che state sempre alla finestra per guardarci andar via, madri che ci trovate incomparabili e unici, madri che non vi stancate mai di servirci e di coprirci e di rimboccarci le coperte anche se abbiamo quarant’anni, che non ci volete meno bene se siamo brutti, falliti, distrutti, deboli o vili, madri che certe volte mi fate credere in Dio. (Albert Cohen, “Il libro di mia madre”)

Tra le relazioni umane quella madre-figlio è senza dubbio quella che sta al primo posto. Arrivo altresì a pensare che il cordone ombelicale reciso alla nascita continui virtualmente ad esserci per tutta la vita. E anche oltre.

Mi è tornato in mente il libro accorato, dedicato alla madre, dello scrittore francese Albert Cohen. Lo lessi più di trent’anni fa, ma non me ne sono dimenticato e l’ho ripreso giorni or sono. Nello sfogliarlo, alla ricerca di frasi significative tra quelle che sono solito sottolineare, mi sono imbattuto in questa lunga elegia in prosa verso tutte le madri del mondo. Un manifesto di amore incondizionato.

È impossibile non riconoscersi in questo lungo elenco di premure e attenzioni che ogni madre del mondo – salvo rare e spiacevoli eccezioni – riversa verso i propri figli.

È un elenco laico – lo scrittore, pur di origine ebraica, era un non credente -, eppure lo scritto termina con l’accostamento della figura materna al pensiero di Dio.

Quest’ultima considerazione mi fa venire in mente il culto della Dea Madre che fu coltivato nel Mediterraneo – e anche altrove – per migliaia di anni. Indimenticabile la statuetta della Dea dormiente visitata a Malta assieme ai grandiosi templi risalenti al neolitico. Una donna prosperosa che riposa prima di rinnovare il suo atto generativo.

La madre dunque è associabile ad un senso di sacralità. Lo scrittore Erri De Luca, anch’esso non credente eppure studioso e traduttore di testi biblici, ha scritto un libro bello e intenso dal titolo “In nome della madre”, incentrato sulla figura di Maria di Nazareth, dal quale vorrei citare la seguente frase:

“ ‘In nome del padre’: inaugura il segno della croce.

In nome della madre s’inaugura la vita.”

Questo legame madre-figlio è talmente forte che quando la madre scompare oltre al gran senso di vuoto per questa assenza – un’assenza onnipresente – rimane un senso di incredulità verso questa perdita, che si lega fortemente con il mistero dell’esistenza.

Ho visto giorni addietro un bel film su Simone Veil, notevole figura umana e politica, che divenne la prima persona eletta a suffragio universale quale presidente del Parlamento europeo. Nel film questa grande donna francese, nel ripercorrere la sua vita, non ha potuto fare a meno di ricordare il periodo in cui fu deportata ad Auschwitz in quanto ebrea. Riuscì ad arrivare al termine della segregazione assieme alla sorella e alla mamma. Quest’ultima purtroppo non ce la fece, proprio in ultimo, a sopravvivere a quella che fu definita la “marcia della morte” che gli aguzzini nazisti imposero ai detenuti fuggendo dal campo di sterminio dove furono uccise più di un milione di persone. Ebbene, nel film Simone, a proposito della madre, dice queste parole:

Assistemmo impotenti alla perdita di mia madre. Non mi sono mai rassegnata alla sua perdita. Non ho potuto salutarla. Ma è come se fosse ancora qui. È la mia forza. Tutto quello che ho fatto nella mia vita, le tante battaglie, è stato grazie a lei. Per mano sua.”

Una considerazione analoga l’ho letta nel bel libro autobiografico “Vita mia” di Dacia Maraini, che la scrittrice ha scritto solo poco tempo fa. Anche lei, ormai ultraottantenne, rivolge un pensiero a sua mamma, scrivendo queste parole:

Era una madre dalle mille risorse e non posso pensare che se ne sia andata. Il mio cuore ormai è diventato un piccolo cimitero.

A seguito di questo pensiero la scrittrice si slancia in una lunga riflessione sul perché della vita, sulla morte e sull’intero universo, a sottolineare quanto già osservato in precedenza.

Concludo questo sassolino con un’ultima citazione, La giovane cantautrice pugliese Erica Mou, ha appena scritto un libro, dal titolo “Una cosa per la quale mi odierai”, in cui parla della scomparsa della madre dopo una malattia durata nove mesi – un periodo che le donne conoscono bene anche se associata alla nascita.

La chiusura del romanzo, e a chiusura di questo articolo più lungo del solito – scritto alfine dopo un lungo silenzio che ho osservato dopo la morte di mia madre – è con queste accorate riflessioni:

Mia madre è morta in nove mesi e un’altra volta, in quel tempo, mi ha dato alla luce.

Quel giorno io sono nata un’altra volta.

Forse, Piccola vita, morire assomiglia un po’ a nascere”.

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